Recensione cinica di un film non certo brutto, ma per cui avevo troppe aspettative date le vittorie agli Oscar. Più che difetti, mi è mancato quel qualcosa che mi capita di trovare in film minori, quel qualcosa che mi emoziona e mi spinge a difenderli malgrado evidenti carenze.
L’ho anche visto in condizioni non ideali, a casa di amici invece che nella deprivazione sensoriale selettiva di un cinema; ma questo non vuol dire, qualche anno fa ho visto nelle stesse circostanze “Dallas Buyers Club” e me ne sono innamorata. A me dispiace quando un film non mi piace! Mentre lo guardo cerco disperatamente l’emozione, il soprassalto, l’epifania, che in questo caso non ho trovato.
Ho riflettuto a lungo su cosa mi fosse mancato, perché il film aveva molto per piacermi. Mi interessa il mescolamento di generi, e ho ritrovato tracce di registi che apprezzo, come Tarantino o Lynch e il loro surrealismo comicamente brutale. E allora? Cosa è andato storto?
(SPOILER PER CHI NON L’AVESSE CAPITO DAL TITOLO.)
Verso la metà ho compreso cosa non mi piaceva. Mi è venuto da descriverlo “ET ma al posto del bambino c’è una donna e quindi scopano.” ET, per i suoi tempi, era già progressista rispetto alla diversità non accettata. Questo film affronta lo stesso tema. Come ogni buon oggetto d’arte, parla di un periodo storico lontano da noi (nel passato o nel futuro), ma in realtà descrive i nostri tempi, il che dovrebbe suscitare empatia. Ma in me non ne ha suscitata, perché tratta il tema gravissimo della discriminazione con la sottigliezza di un Caterpillar schiantato in faccia allo spettatore e poi cacciato in gola fino a polverizzarlo nel fango.
I protagonisti buoni-buoni-oh tanto buoni sono Elisa, un’italiana muta – due minoranze al prezzo di una – Zelda, la sua amica afro-americana (Octavia Spencer, una delle mie attrici preferite, qui usata troppo poco), Giles, un vecchio artista gay, Dimitri, una spia russa, e la Creatura. Sembra studiato a tavolino. Un jackpot degno di Oscar nel nostro mondo politicamente corretto e in particolare nella Hollywood liberal, il che è molto positivo ma non quando va a discapito della caratterizzazione: ciascun personaggio è definito dalla sua diversità, nient’altro, il che fa pensare a una discriminazione più profonda di quella che viene apparentemente condannata.
Ci sono poche interazioni umane interessanti, che è una delle prime cose che cerco in un film. Il rapporto platonico fra Elisa e Giles è tenero, ma viene messo da parte in favore della prevedibile storia d’amore fra Elisa e la Creatura, che non è riuscita a commuovermi. La scena in cui Elisa allaga il bagno per creare un ambiente favorevole alla Creatura (e al loro accoppiamento) è stata irreparabilmente rovinata dai miei pensieri su come io, nel 2018, non riuscirei MAI a isolare la porta del mio bagno con la stessa efficacia del 1962, in cui solo poche gocce cadono al piano di sotto invece di devastare l’intero condominio per decenni a venire… complimenti ai falegnami della guerra fredda!
Mi è piaciuta, suscitandomi un raro sentimento di identificazione a causa della mia depressione clinica, la scena in cui Giles parla alla Creatura del suo straniamento di omosessuale: “Sei sempre stato solo? Non hai mai avuto qualcuno? Sai cosa ti è successo? Io no.” (Citazione a memoria.) Però la mia emozione si ferma lì, perché… A parte il fatto che Giles guarda la Creatura da un punto di vista umano-centrico e quindi poco politicamente corretto – non chiedendosi se lui, o lei, avesse avuto 8 partner, 196 figli e 5438 discendenti prima di essere catturato/a – mi sarebbe piaciuto di più se fosse stato Giles a innamorarsi della Creatura, come mi aspettavo a un certo punto… ma ahimè, non fa cassetta essere troppo progressisti, soprattutto se si è un regista maschio: un vecchio pelato che si masturba in una vasca da bagno e sbaciucchia una Creatura androgina non è attraente quanto una bella donna quarantenne in perfetta forma.
I cattivi-cattivi-oh tanto cattivi sono stereotipi manicheisti di russi e americani della guerra fredda. Il personaggio che più mi è piaciuto nella sua complessità è Dimitri. Strickland, il supercattivo, è una macchietta, a tratti divertente ma privo di vere motivazioni; il suo desiderio di emergere e poi di salvarsi è ridotto a un digrignare di denti e a un crescente sadismo: vorrei che gli fosse stata data la stessa sfumatura grigia di Dimitri. Una mia compagna di visione ha commentato “Sì sì, gli anni ’50 erano assolutamente così”, ma, a parte che era il 1962 (l’ho capito solo dopo, leggendo i commenti), anche in quei tempi terribili c’erano persone buone che lottavano contro la segregazione dei neri e l’oggettificazione delle donne. Cosa mostrare è una scelta del regista, quindi io preferisco film come “The Help”, in cui si vedono bianchi e soprattutto neri impegnarsi per migliorare le cose, piuttosto che scegliere di descrivere acriticamente una cupezza senza speranza per dimostrare una tesi forzatamente paragonata ai nostri tempi.
A posteriori, mi è piaciuta l’introduzione con la voce di Giles che parla degli ultimi giorni di un bel principe (nel 1962 John F. Kennedy aveva solo un anno da vivere) e fa riferimento a un mostro, che capiremo solo dopo che è Strickland, non la Creatura. Ma la parte storica mi è sfuggita durante la visione del film, perché i brevi riferimenti a JFK e alla crisi dei missili cubani vanno persi per chi non sia totalmente concentrato su ogni dettaglio del film. Di nuovo, forse nel silenzio di un cinema avrei saputo coglierlo.
(PS: andate al cinema se potete, ma se non potete, non abbiate scrupolo a vedere versioni piratate. Se non vi piace non avrete sprecato i vostri soldi al cinema, che lo stato italiano sta distruggendo con prezzi vergognosamente astronomici; se vi piace vi prenderete il DVD, come ho fatto io con “Dallas Buyers Club”.)
Alla fine dei titoli di coda, che noi da bravi malati ci leggiamo fino all’ultima virgola, Del Toro ringrazia registi come Cuaròn e Inarritu (messicani come lui). Ah beh, siamo a posto, dico io. Cuaròn è quello che ha distrutto il mio apprezzamento dei film di Harry Potter, demolendo la vecchia generazione dei Malandrini e trasformando Peter (l’immenso Timothy Spall che non se lo meritava) in una macchietta, invece del tragico Gollum della saga. Inarritu (scusate, non so scrivere la tilde) ha diretto “Revenant”, in cui Di Caprio vince l’Oscar facendosi mangiare da un orso e contemplando gli alberi. Ricordo quando lo vidi: “Oh, che bella scena del cielo fra gli alberi. Oh, un’altra scena del cielo fra gli alberi. Oh, la venticinquemillesima scena del cielo fra gli alberi”. Non ne ho ricavata una grande stima dei registi messicani, che oggi sembrano incarnare il peggio che si diceva qualche anno fa dei registi francesi. Di Del Toro mi è piaciuto “Hellboy 1” per la vena di autoironia e il grandissimo Ron Perlman, ma non “Il labirinto del fauno” per la scarsa attenzione alla Storia e lo stesso manicheismo che ho ritrovato in “La forma dell’acqua”. Prima che mi si accusi di discriminazione verso i registi etnici, mi piace Almodòvar, che però è spagnolo… razzismo continentale?
Per concludere: immagini bellissime, simbologia profonda (l’acqua, ma anche i colori, lo scorrere del tempo, oggetti come l’uovo e la scarpa), ma non abbastanza umanità per coinvolgermi. E poi ammetto la mia ipocrisia: il film mi ha perso quando la Creatura ha ucciso il gatto. Torturate tutti gli umani che volete, ma lasciate stare gli animali che non capiscono cosa gli succede. E con questo credo di aver fatto ampiamente capire la mia credibilità di recensore.