Recensione: Bohemian Rhapsody

Mama, ooohhh
I don’t wanna die
I sometimes wish I’d never been born at all

Queste parole furono scritte da un giovane di 29 anni, Farrokh Bulsara detto Freddie. Veniva da una famiglia perbene, ma la sua feroce voglia di vivere, la sua sensibilità finissima e una voce sovrumana lo spinsero ad andare oltre. Sarebbe facile dire che questi versi di Bohemian Rhapsody siano un presagio della morte di Freddie Mercury a 45 anni nel 1991. In realtà sono la dichiarazione programmatica della vita di Freddie e dei Queen, e la fine di Freddie è semplicemente la conclusione logica di questa dichiarazione.

– Bohémien: lo stile di vita non convenzionale degli artisti europei nell’800, che conducevano un’esistenza al limite.
– Rapsodia: composizione molto libera e variegata.

Il film potrebbe intitolarsi “Freddie + Queen”: l’uno non poteva esistere senza gli altri, e questa realtà è resa bene. La regia di Bryan Singer (vari film degli X-Men ma anche I Soliti Sospetti e L’Allievo) non è delle più sottili. Who Wants to Live Forever in sottofondo alla scena in cui Freddie scopre di avere l’AIDS, parliamone. Il “cattivo” Paul incombe sullo sfondo in ogni scena. Il film fu finito da Dexter Fletcher, attore passato alla regia, memorabile nel ruolo del sergente John Martin in Band of Brothers. Gli auguro il meglio per il suo futuro di regista, perché come attore è immenso.

La storia dei Queen come gruppo è la più problematica. Il film si prende molte libertà. In realtà non si incontrarono come viene rappresentato, non ci fu rottura con la EMI, non ci fu scissione, i Queen non ebbero mai dubbi sul Live Aid, e altri eventi non avvennero nei momenti in cui sono raffigurati. Ma da fan dei Queen queste discrepanze non mi hanno disturbata nel cineforum romagnolo in cui l’ho visto settimana scorsa. Non mi importa che We Will Rock You sia stata in realtà scritta negli anni ’70; il modo in cui Brian May la crea nel film – coinvolgendo compagni e mogli, con Freddie che improvvisa il testo – è meravigliosamente evocativo. Così come Another One Bites the Dust accennata distrattamente da John Deacon sul basso: pelle d’oca alta tre metri!

La parte che ho trovato più manipolativa dei miei sentimenti è quella in cui Freddie rivela di avere l’AIDS subito prima del Live Aid. Ovvio che se si guarda l’epico finale del film – che replica alla perfezione il Live Aid – sapendo che Freddie è malato, la sua performance assume tutto un altro significato, dal bacio alla mamma fino a We Are the Champions. Ufficialmente lo scoprì in seguito. Ma non ufficialmente non sappiamo cosa si dissero in un gruppo così fedelmente unito.

Al di là degli errori, questa è una delle cose che ho amato del film: il rapporto fra i membri dei Queen. Freddie è un dio da subito; gli altri tre sono adorabili ragazzi normali (e similissimi a quelli veri, che hanno collaborato al film) che gli vogliono bene e ci tengono a creare cose belle insieme a lui. Sono gli anti-Beatles: tutti bravi padri di famiglia che scappano dalle feste estreme di Freddie, tutti uniti quando il dovere chiama, tuttora esistenti come band anche se Freddie non c’è più.

Freddie è totalmente, brutalmente Freddie. Il film non ha preso e non meritava l’Oscar, ma il premio a Rami Malek è meritatissimo. Non c’è molta differenza fra lui e Gary Oldman (che ha vinto l’Oscar l’anno scorso per il ruolo di Churchill, e gli ha consegnato il premio) per come si sono calati nella parte, e considerando l’età il risultato è straordinario. Mi è piaciuto come hanno tenuto gli occhi verdi di Rami invece di mettergli le lenti a contatto scure: il suo sguardo parla quanto mille canzoni. Nel suo discorso di ringraziamento, davanti ai Queen in prima fila, ha definito Freddie come “unapologetically himself”: se stesso, senza scuse.

Freddie è così nel film: per sempre adorante verso la fidanzata Mary (a cui dedica la splendida “Love of my Life”), tormentato dalla scoperta della propria bisessualità, sfrenato nei party a base di sesso e droga che lo porteranno alla morte. Si potrebbe dire che non c’è molta ispirazione positiva in una persona così, che uso la parola “eroe” a sproposito. Ma per me gli eroi e le eroine sono coloro che hanno lasciato a me e al mondo più di quanto non ci sarebbe stato senza di loro.

Freddie non cerca giustificazioni per il suo comportamento: né fama o ricchezza o genio. Freddie vorrebbe solo avere sempre i suoi gatti (fra madri di gatti ci capiamo), i suoi amici, e Mary nel palazzo di fronte per chiamarla al telefono e vedere accendersi e spegnersi la sua lampada. “I want it all and I want it now.” Egocentrismo, certo, ma straziante; e senza scuse.

Ho pianto in un momento inatteso, quando al Live Aid cantano “Radio Gaga”. Non me lo aspettavo, e dire che lo vidi in diretta. Quella canzone mi ha riportato a un tempo che non c’è più e che i Queen hanno contribuito a rendere per me unico. Quasi li odio per questo, adesso. Ma li amo troppo per odiarli.

L’altro giorno ho sognato che parlavo con i Queen e che c’era anche Freddie. Mi sembra di essere lui. Non so bene cosa voglia dire, ma mi viene in mente la tomba di Oscar Wilde – su cui decenni fa lasciai un biglietto del métro con scritto non ricordo cosa – e l’epitaffio tratto dalla sua poesia “The Ballad of Reading Gaol”:

And alien tears will fill for him
Pity’s long-broken urn,
For his mourners will be outcast men,
And outcasts always mourn.

 

Informazioni su PB Cartoceti

Laureata in Lettere Moderne con indirizzo Filologia Romanza all'Università del Sacro Cuore di Milano. Scrivo da sempre racconti e romanzi; alcuni racconti sono stati premiati. Svolgo attività di traduttrice (per più di dieci anni presso la casa editrice Fanucci, ultimamente di racconti apocrifi di Sherlock Holmes per la Delos) e di saggista. Tengo conferenze su vari argomenti letterari, in particolare gli studi tolkieniani. Contattatemi solo in caso di emergenza a pbcartoceti AT tiscali DOT it
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