Dato che non vado al Raduno Tolkieniano di San Marino – tristezza – vi scrivo un editoriale.
Il fenomeno mediatico YouTube sta esplodendo come fonte di notizie alternativa ai mainstream media e come forma di intrattenimento. Ormai è paragonabile all’avvento della televisione; c’è un sacco di spazzatura, fake news e molte gemme; bisogna discriminare. Spero di esserne in grado.
Personalmente l’ho scoperto in un momento di stanchezza. Dall’autunno scorso, causa la dipartita di un amato zio e qualche problema di salute, ho avuto una serie di casini burocratici che hanno stroncato tutto l’entusiasmo suscitato da Stranimondi 2017. Stare al telefono 24/7 con geometri, commercialisti, notai, e dottori, e girare per proprietà e ospedali, fa questo effetto. Continuo a tradurre e a lavorare sulle mie scritture, ma arriva il momento in cui voglio solo staccare il cervello. Ho raggiunto un livello di pigrizia tale che non ho neanche più voglia di fare giochi su Internet: mi basta guardare qualcun altro che gioca.
Da questo incontro casuale (non ricordo neanche quale gioco avessi cercato per la prima volta) è nata una specie di dipendenza che devo combattere per riuscire anche a lavorare. È così rilassante fissare lo schermo del computer come una televisione, e carrellare (per usare un verbo popolare nella mia famiglia) fra i vari canali. Certo, potrei darmi da fare per implementare il collegamento Internet della mia WII e guardare i video sul televisore intanto che faccio step o cyclette, ma fa tanto caldo…
Sia per mantenermi in esercizio con la lingua che per reazione alla televisione italiana perennemente accesa nella nostra cucina, guardo solo canali in inglese. Uno dei primi che ho scoperto – potrà sembrare banale – è lo YouTuber più popolare in assoluto, Pewdiepie, un opinionista svedese che vive in Inghilterra con la sua futura moglie italiana, Marzia, lei stessa YouTuber. Già questo è significativo del melting pot che mi piace in YouTube. Felix è abrasivo, brutalmente sincero, dotato di un umorismo sarcastico che viene compreso da pochi. Certe volte non lo sopporto neanch’io, ma so che da lui posso sempre aspettarmi commenti interessanti su giochi, video, notizie, perfino libri. Il fatto che sia un gran bel figliolo aiuta.
In realtà il mio YouTuber preferito è Markiplier, nato alle Hawaii, figlio di un tedesco e di una coreana, convivente con un Golden Retriever e residente a Los Angeles – di nuovo uno splendido mix. Mark è soprattutto un gamer, ma ha anche prodotto e interpretato webseries di qualità superiore a molto che si vede in TV (cercate “Who Killed Markiplier”). È anche famoso per video intimisti in cui racconta momenti di crisi, perdite personali, gratitudine verso i fans per i suoi successi, con copiosi pianti; ma anche il suo strabordante umorismo è evidente nelle lunghe dirette che produce periodicamente per beneficienza, grazie alle quali ha donato milioni per le cause più diverse. Anche lui è uno strafigo pazzesco… ho davanti a me il suo calendario di nudi artistici, venduto in favore della lotta contro il cancro!
Il concetto dei guadagni su YouTube mi porta a un argomento molto spinoso, che mi ha aperto un mondo alternativo all’editoria ma altrettanto pieno di pericoli. No, non voglio diventare una YouTuber, la mia ansia sociale me lo impedisce (chi può dirlo…), ma mi affascina vedere come altri creativi si sono inventati un lavoro che non è mai scontato quanto ai guadagni. YouTube sta diventando sempre più un business, e come tale sempre più schiavo delle leggi del mercato.
Se io posto un video su YouTube ho l’opzione di “monetizzarlo”, ovvero di mostrare spot pubblicitari al suo interno, e ricavarne un guadagno. È così che gli YouTuber che per un puro caso demografico hanno colto l’onda al momento giusto (al volgere degli anni ’10) e adesso vanno per la trentina, come Felix o Mark, hanno costruito la loro fortuna.
Ma è davvero così facile fare soldi con YouTube? Lo è sempre meno. È in voga il fenomeno della “demonetizzazione”, per cui se un video è meno che politicamente corretto, non ottiene spot e quindi non porta guadagno all’autore. Il famigerato Pewdiepie ha fatto diversi passi falsi nella sua carriera, biologicamente inevitabili – avete presente il principe Harry in uniforme nazista, ora buon marito e futuro padre di famiglia? Il culmine della crisi di Felix è stato durante una diretta del videogioco Player Unknown Battlegrounds (PUBG) in cui nell’euforia del combattimento il giovane svedese ha pronunciato l’infame parola NIGGER. Demonetizzato all’istante e messo all’indice – al momento i mainstream media lo accusano anche se si gratta il naso in trasmissione.
E apriamo un’altra parentesi sul politicamente corretto. Restiamo sull’esempio di NIGGER. (Lo metto in maiuscole perché è così significativo, a rischio di essere demonetizzata… no, un momento, il sito me lo pago io.) In se stesso, è un termine derogativo per indicare gli Afro-Americani. Però viene usato liberamente dagli Afro-Americani stessi, per esempio nel rap. Ma se lo usa un bianco è offensivo! Viene addirittura fatta la differenza di pronuncia fra nigg-ER, con la R arrotata, che è inteso come un insulto, e NIGGA, che invece vale come “amico”. La filologa in me inorridisce. Questo è solo un piccolo esempio del delirio che ho scoperto su YouTube. Sono conservatrice e mi considero di mentalità aperta, ma ultimamente mi sembra che il politicamente corretto stia esagerando.
Esempio. Sono affascinata da un fenomeno per cui non so neppure trovare un nome. Loro si fanno chiamare (per il momento) LGBTQA+, e la filologa di cui sopra inorridisce di nuovo. Accetto che una persona non si identifichi con i due generi classici. Quasi tutti abbiamo passato la fase della cotta per la migliore amica o per l’atleta figo della classe. Qualcuno non riesce a superarla e ha seri problemi di identità di genere. Da ansioso-depressiva, ho il massimo rispetto per loro. Come io ho cercato rimedio nella terapia psicologica e psichiatrica, com-patisco (= soffro con) quelli che decidono di essere attratti dal loro stesso genere, o addirittura di compiere un difficile processo di transizione per diventare quello che sentono di essere davvero. (No, non basta andare in ospedale e trasformare la passerina in un uccellino e viceversa. È un processo infinitamente più lungo, complesso e doloroso.)
Ma mi sembra ridicolo e pericoloso che diventi una moda – da applicare forzatamente perfino ai bambini, che sono tutti potenzialmente bisessuali perché la vera attrazione verso l’altro avviene solo con la pubertà – e che si voglia essere rappresentati da una sigla ridondante:
L = Lesbica (ok, ma basterebbe omosessuale)
G = Gay (ok, ma vale anche per le donne omosessuali)
B = Bisessuale (ok, esistono e in un certo senso lo siamo quasi tutti)
T = Transessuale (ok, ma ce ne sono di tutti i tipi, gli uomini che diventano donna ma si tengono il pipino, etc)
Q = Queer (che a mio modesto parere copre tutti gli esempi di cui sopra)
A = Asessuale (ok, esistono, io lo sono per necessità, ma è uno spettro larghissimo)
+ = tutti gli altri, poligami, polisessuali cioè attratti da qualsiasi cosa… è un casino!
Detto ciò, ripeto, questa cultura mi affascina. Seguo su YouTube diversi omosessuali, transessuali e bisessuali. Molti di loro fanno video di bellezza, cioè trattano di trucchi, vestiti, arredamento etc (anche un sacco di YouTubers etero come Marzia) e questo argomento mi interessa poco, non sarei mai capace. Ma sono attratta dall’estetica di queste persone, le trovo belle a prescindere: due esempi, Blaire White (con cui condivido l’impostazione conservatrice) e Jeffree Star. Quando guardo un loro video ho l’irrefrenabile impulso ad andare a depilarmi le mie sopracciglia da Neanderthal, che può farmi solo bene.
Questa è solo la punta dell’iceberg di ciò che trovo interessante su YouTube. Mi piace tutto ciò che sfida le definizioni convenzionali, per esempio SomeBlackGuy, un ragazzo nero (si può dire?) e conservatore. E quando sono stanca delle diatribe sul politicamente corretto, posso sempre rilassarmi guardando Felix o Mark che giocano a qualcosa. Non è esattamente sano, ma è un ansiolitico.